2/05/24

Amici di penna. Il ruolo del linguaggio mediatico nella definizione della violenza di genere

Alla luce degli agghiaccianti fatti di cronaca di cui ci troviamo a seguire quotidianamente l'andamento ho analizzato, da giornalista, il ruolo che ha il linguaggio mediatico e quanto sia peculiare nella formazione dell'opinione pubblica, in particolare riguardo alla narrazione della violenza di genere. 


Ph. Pixabay




Essere una scrittrice è un rischio, oggi. Le donne forti e autodeterminate costituiscono già di per sé una minaccia per la società patriarcale in cui viviamo. Semplicemente, dà fastidio che una donna parli, agisca, o anche solo esista. Da giornalista, femminista, ma soprattutto donna, ho analizzato il ruolo che ha il linguaggio mediatico nella formazione dell'opinione pubblica. In particolare, del lessico usato per la definizione della violenza di genere. 

I media hanno un grande potere di influenzare le masse, ma finché il victim blaming (colpevolizzazione della vittima) e la cultura dello stupro continueranno a essere radicati, ci saranno ancora narrazioni sbagliate di giudici che accusano e processano la vittima, inventando che il suo dissenso non sia stato abbastanza chiaro, o interpretano il freezing (la paralisi causata dalla paura) come un permesso a procedere. 

I mezzi di comunicazione diventano così dei tribunali che condannano e assolvono, talvolta proteggendo le facce e i nomi degli stupratori. La vittima, invece, viene tacciata di essere ingenua, non aver colto i segnali, di non aver lasciato subito quel fidanzato violento. Biasimata perché aveva osato uscire di sera, magari indossando la minigonna. Per essersi presa la sua libertà, considerata una sfida al potere maschile, è stata punita.  La locuzione ricorrente è: "Te la sei cercata!" 

Siamo fin troppo assuefatti al frasario vergognoso di alcuni Telegiornali o altre fonti di servizio pubblico che sminuisce la vicenda con affermazioni come: "uccisa da colui che diceva di amarla", "amore malato", o tirando in ballo un inesistente "raptus di gelosia". Così com'è accaduto per la vicenda della povera Giulia Cecchettin, continuare a considerare "bravo ragazzo" il suo assassino è un'offesa per i suoi familiari. A Giulia è stata tolta la vita a coltellate, non a causa di una lite, come i media hanno erroneamente riportato. Checché ne vogliano dire, il loro bravo ragazzo l'ha uccisa. 

Le parole sono importanti, ma spesso chi scrive o produce informazione se lo dimentica. Per esempio, a dispetto delle critiche mosse a riguardo, si deve parlare di femminicidio e non di omicidio. Questa distinzione non è un puntiglio: non è il genere della vittima che configura la fattispecie di reato, ma il movente e le armi utilizzate (ad esempio, l'acido per sfigurare il volto).  Questa modalità di delitto è sempre esistita, solo che prima si chiamava delitto d'onore; un onore che all'epoca afferiva alla morale pubblica, non alla persona. 

Un altro caso terrificante di violenza è stato lo stupro di Palermo. Ancora più assurdo, ai miei occhi, è stato il fatto che la madre di uno degli aggressori abbia definito la vittima "poco di buono". Un triste esempio di una donna che va contro un'altra donna, e di genitore che difende il figlio delinquente. 

Per una survivor, una sopravvissuta, andare in pasto ai media, che definiscono il suo dramma travalicando i limiti del dovere di cronaca, costituisce un'ulteriore forma di violenza. Essa è definita vittimizzazione secondaria, forse anche peggiore del trauma subito. Le donne non si sentono più sicure e quindi non denunciano, lasciando che siano degli organi di informazione inadeguati e un pubblico becero a parlare di loro e per loro. 




 



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