11/01/22

Boo[k]! La concezione della morte in Sardegna, tra miti e leggende

La Sardegna è una terra misteriosa e fiera e, come molte altre regioni del Sud Italia, ha una propria concezione della morte e del culto dei defunti, Scopriamo insieme i suoi miti, le leggende, ma anche delle verità 


L'acabadora. Fonte: Greenme.it



In Sardegna, come nel Sud dell'Italia in generale, c'è un particolare culto della morte e dei defunti, che vengono omaggiati in svariati modi e anche un po' temuti. I sardi considerano la morte come una successiva fase della vita, quella della gloria. Difatti, la frase più comune per dare le condoglianze è a du connoschede in sa groria, ovvero speriamo di ritrovarlo nella Gloria, cioè in Paradiso.

Nel patrimonio culturale e storico dell'isola troviamo i simboli di tale deferenza, come i Nuraghi, ma anche le Domus de Janas o le Tombe dei Giganti, che sono sepolture scavate nella roccia, successivamente tramutate in case delle fate

Sono però i rituali e le ricorrenze a fare la differenza nel culto dei morti: basti pensare a quelli del Carnevale, di origine pagana, che simboleggiano la morte e la rinascita della Natura, dove l'essere umano o si trasforma in una bestia da sacrificale, oppure in un essere antropomorfo impazzito che vagabonda. 

Nella tradizione sarda vi erano dei veri e propri segnali premonitori della morte imminente di qualcuno: il temuto canto de s'istrìa, ovvero la strega, oppure il verso di uccelli notturni come il cucumaio o il passero solitario. Altri presagi di sventura erano i cani che latravano dinanzi a una casa, il gallo che cantava prima di mezzanotte e il gatto che diventava improvvisamente triste e apatico. 

Anche una stella particolarmente luminosa vicino alla luna, ancora peggio se è pervasa da un alone rossastro, l'anno bisestile e la Pasqua che cade a marzo venivano considerati eventi poco rassicuranti. 

Quando sopraggiungeva la morte, tutta la comunità si stringeva attorno alla famiglia del trapassato, che nell'antichità veniva adagiato su un tavolo coperto da un tappeto, chiamato Tapinu 'e mortu, oggi quasi in disuso, e alcune Attitadoras, ovvero delle prefiche, recitavano preghiere e inscenavano canti e lamenti. 

Ci si vestiva di nero, ma una volta anche il giallo era considerato il colore del lutto, e gli uomini non potevano tagliarsi la barba finchè non fosse trascorso un certo periodo di tempo. Con la formula est repicande a mortu si indicavano, inoltre, le campane che suonavano a morto dopo il funerale. 

Era usanza che gli uomini s'intratenessero a casa del morto dopo la veglia, e venisse offerto loro da bere. Inoltre, vicini e amici procuravano alla famiglia il pranzo e la cena. Dopo la funzione funebre, vi facevano ritorno per bere caffè e mangiare biscotti sardi. Ancora oggi si usa regalare ai familiari del defunto vettovaglie come pasta, zucchero e caffè in occasione della messa del trigesimo.

Tra le leggende sarde la più affascinante è quella de  Sa Rèula, ovvero la processione delle anime che arrivano fino al luogo in cui cìè qualcuno da portare via. Si raccontava che, nei pressi di chiesette di campagna, questi spiriti si riunissero e facessero un ballo in cerchio. 

Ma il personaggio più noto e controverso nell'immaginario collettivo. che ha travalicato i confini dell'isola, è sicuramente quella de S'accabadora. Questo termine in Italiano può essere reso nella definizione colei che finisce, che mette fine alla vita. Il suo compito era, infatti, aiutare a morire le persone che soffrivano troppo a causa di un'agonia lenta. Si credeva che fosse la giusta pena per coloro che si erano macchiati di gravi peccati. 

Erano donne vestite di nero che venivano chiamate nella casa del moribondo, e si servivano del giogo, un martello da posare sotto il suo capo. Ancora una volta, la donna è considerata portatrice di sventura, ma anche guaritrice, grazie a decotti con erbe medicamentose. Nel caso della  femmina accabadora, invece, assurgeva al compito di accompagnare nel passaggio dalla vita alla morte, una sorta di eutanasia ante litteram



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